Le donne odiavano il jazz In evidenza
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Non si capisce il motivo. Perché a volte, quando la puntina tocca un vinile di Miles o Sun Ra o di qualche compositore etiope dal nome impronunciabile, ammetto a me stessa che forse, se non mi fossi affrancata dalle chitarre, prima o poi la musica non avrebbe più avuto il potere di parlarmi.
Dopo i lunghi anni adolescenziali trascorsi ad ascoltare suoni bianchi come la neve, note algide e asettiche, dopo quei pomeriggi liceali passati a mandare a memoria il classicissimo trittico verse-chorus-verse più diligentemente della coniugazione dell’ottativo, ho scoperto un nuovo mondo.
Un mondo in realtà antichissimo e ancestrale, ma allo stesso tempo articolato fin nel profondo e proiettato verso il futuro, affamato di libertà e perciò potentemente liberatorio.
Come un tesoro nascosto, un giorno ho scovato sugli scaffali di mio padre quelle compilation di Gilles Peterson che mi hanno dischiuso una galassia di suoni per me inediti: le suggestioni del jazz e i viaggi seduttivi del boogaloo, strumentali intriganti, gemme segrete, foreste percussive e apoteosi di ottoni, arrangiamenti lussureggianti e cover sorprendenti. Art Blakey e Tito Puente, oscure formazioni surf e scintillanti ladies, bluesman convertiti alle tentazioni 60s e il Brasile più onirico.
Negli anni dell’università accumulavo contemporaneamente triadi dialettiche e piccoli tesori a 45 giri, sognando the land where the Blues began davanti alla mia record box, andando a ricostruire l’albero genealogico della black music, tra campi di cotone e rituali voodoo, nella trasformazione degli spiritual in gospel e, infine, sotto il manto ultra-colto del jazz. Passando per le funzioni liturgiche e sensuali del reverendo Al Green fino al meticciato urbano con la cultura hip-hop. Un principio che forse proprio nel suo carattere primigenio ha esercitato la sua potenza immediata, fugando ogni sospetto di astrusità, intellettualismo, freddezza. Perché la complessità del jazz non è autoreferenzialità. La sua natura sfaccettata non è un esercizio di stile, ma il tentativo di tradurre con la più alta immediatezza possibile l’essenza mutevole, ondivaga, inafferrabile dell’animo umano. E forse è per questo che riesco ad addormentarmi solo ascoltando ‘Sketches of Spain’.
Un mondo in realtà antichissimo e ancestrale, ma allo stesso tempo articolato fin nel profondo e proiettato verso il futuro, affamato di libertà e perciò potentemente liberatorio.
Come un tesoro nascosto, un giorno ho scovato sugli scaffali di mio padre quelle compilation di Gilles Peterson che mi hanno dischiuso una galassia di suoni per me inediti: le suggestioni del jazz e i viaggi seduttivi del boogaloo, strumentali intriganti, gemme segrete, foreste percussive e apoteosi di ottoni, arrangiamenti lussureggianti e cover sorprendenti. Art Blakey e Tito Puente, oscure formazioni surf e scintillanti ladies, bluesman convertiti alle tentazioni 60s e il Brasile più onirico.
Negli anni dell’università accumulavo contemporaneamente triadi dialettiche e piccoli tesori a 45 giri, sognando the land where the Blues began davanti alla mia record box, andando a ricostruire l’albero genealogico della black music, tra campi di cotone e rituali voodoo, nella trasformazione degli spiritual in gospel e, infine, sotto il manto ultra-colto del jazz. Passando per le funzioni liturgiche e sensuali del reverendo Al Green fino al meticciato urbano con la cultura hip-hop. Un principio che forse proprio nel suo carattere primigenio ha esercitato la sua potenza immediata, fugando ogni sospetto di astrusità, intellettualismo, freddezza. Perché la complessità del jazz non è autoreferenzialità. La sua natura sfaccettata non è un esercizio di stile, ma il tentativo di tradurre con la più alta immediatezza possibile l’essenza mutevole, ondivaga, inafferrabile dell’animo umano. E forse è per questo che riesco ad addormentarmi solo ascoltando ‘Sketches of Spain’.
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