September Song In evidenza
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I giornali di oggi sono la carta straccia di domani e chi fa questo mestiere lo sa meglio di tutti
Ricordo però perfettamente – almeno io che le ho scritte – le parole stampate su queste stesse pagine esattamente un anno fa. Dopo un’estate di libertà apparente, in cui le discoteche erano state l’unico concreto capro espiatorio – sempre che la definizione di “discoteca” sia ancora sensata nel 2021 – dati alla mano, lo spettacolo dal vivo gridava a gran voce la salubrità dei propri spazi, in un disperato tentativo di scongiurare l’epilogo imminente di cui tutti eravamo consapevoli.
Ottobre avrebbe segnato uno stop senza fine dichiarata per l’intero comparto, che si è infatti rimesso in moto effettivamente solo a fine giugno 2021. Otto mesi: un tempo infinito. Ma soprattutto un funerale implicito per tutti i soggetti che lavorano esclusivamente nella stagione autunnale e invernale: i famigerati e tanto vituperati club ovviamente, ma anche cinema, teatri, sale da concerto. Poco hanno giovato le parziali riaperture dell’estate appena trascorsa, salutate con comprensibile timore anche dagli addetti ai lavori, tanto che molti hanno rinunciato a mettere in piedi eventi o hanno scelto di ridimensionarne drasticamente la fruizione.
Nessuno scampo per i grandi festival e per i cosiddetti “locali da ballo”, fatta eccezione per quei pochi che – nella tacita consapevolezza collettiva – hanno scelto di rischiare e spesso incappare in sanzioni, accettate e recepite fino alla trasgressione del weekend successivo. Una strategia che, per un settore congelato da più di un anno, pochi si sono sentiti nelle condizioni di condannare, guardandola come un tentativo disperato di salvare almeno in parte la “stagione”, pur nella consapevolezza delle conseguenze, piuttosto che come uno stratagemma tutto italico per aggirare le regole.
Oggi, nel momento esatto in cui scrivo, l’intero settore dello spettacolo dal vivo si mobilita per chiedere finalmente alle istituzioni una data, una prospettiva, un’indicazione di percorso. Procedure e possibilità di ripresa che suonano soprattutto come una richiesta di riconoscimento e, a monte e in modo ancora più radicale, come una presa di coscienza della propria identità da parte degli stessi addetti ai lavori. Ancora un mese di pazienza, si legge, un mese in cui si dovranno scrivere le regole per recuperare frammenti di normalità. Ma soprattutto, un mese in cui dovrà essere portata a galla la consapevolezza che quanto c’è di essenziale per l’essere umano non è riconducibile e riducibile solo all’operosità e al consumo – né a un’istruzione malamente digitalizzata – ma che la cultura, anche nelle sue forme sottoculturali, deve tornare a essere il nostro pane quotidiano.
Ottobre avrebbe segnato uno stop senza fine dichiarata per l’intero comparto, che si è infatti rimesso in moto effettivamente solo a fine giugno 2021. Otto mesi: un tempo infinito. Ma soprattutto un funerale implicito per tutti i soggetti che lavorano esclusivamente nella stagione autunnale e invernale: i famigerati e tanto vituperati club ovviamente, ma anche cinema, teatri, sale da concerto. Poco hanno giovato le parziali riaperture dell’estate appena trascorsa, salutate con comprensibile timore anche dagli addetti ai lavori, tanto che molti hanno rinunciato a mettere in piedi eventi o hanno scelto di ridimensionarne drasticamente la fruizione.
Nessuno scampo per i grandi festival e per i cosiddetti “locali da ballo”, fatta eccezione per quei pochi che – nella tacita consapevolezza collettiva – hanno scelto di rischiare e spesso incappare in sanzioni, accettate e recepite fino alla trasgressione del weekend successivo. Una strategia che, per un settore congelato da più di un anno, pochi si sono sentiti nelle condizioni di condannare, guardandola come un tentativo disperato di salvare almeno in parte la “stagione”, pur nella consapevolezza delle conseguenze, piuttosto che come uno stratagemma tutto italico per aggirare le regole.
Oggi, nel momento esatto in cui scrivo, l’intero settore dello spettacolo dal vivo si mobilita per chiedere finalmente alle istituzioni una data, una prospettiva, un’indicazione di percorso. Procedure e possibilità di ripresa che suonano soprattutto come una richiesta di riconoscimento e, a monte e in modo ancora più radicale, come una presa di coscienza della propria identità da parte degli stessi addetti ai lavori. Ancora un mese di pazienza, si legge, un mese in cui si dovranno scrivere le regole per recuperare frammenti di normalità. Ma soprattutto, un mese in cui dovrà essere portata a galla la consapevolezza che quanto c’è di essenziale per l’essere umano non è riconducibile e riducibile solo all’operosità e al consumo – né a un’istruzione malamente digitalizzata – ma che la cultura, anche nelle sue forme sottoculturali, deve tornare a essere il nostro pane quotidiano.
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