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Testo: Angela Giorgi / Brano: “Picking Words” - Σtella
Perugino, classe 1982, Diego Cacciamani arriva da un percorso formativo e professionale fulminante: laurea in tempi record tra l’Italia e Lisbona, esperienze lavorative all’estero appena ventenne, riconoscimenti internazionali. Un background di ampio respiro che, però, non gli ha fatto dimenticare l’Umbria e Perugia, dove una decina di anni fa ha aperto il suo studio A25design.
Giovanissimo ma già con un percorso personale definito. Raccontaci la tua esperienza, dalla formazione al lavoro.
La mia fase accademica è iniziata nel 2001 con l’iscrizione alla facoltà di Architettura di Firenze. Per il quarto anno di studi sono andato in Portogallo: è stato un anno di Erasmus un po’ atipico, non la classica parentesi di “sbronze serali”, ma un periodo molto produttivo in cui ho lavorato e viaggiato. Dopo essere tornato a Firenze, dove ho concluso il mio percorso di studi diventando anche cultore della materia nell’ambito del corso di Rilievo, ho iniziato a collaborare con uno studio che era un po’ un punto di riferimento nella città. Ero laureato, parlavo correntemente due lingue e avevo già una buona esperienza in ambito lavorativo: sono sicuramente partito un po’ avvantaggiato.
Studiare in Italia, studiare all’estero. Quali differenze hai notato?
C’è un abisso. Fortunatamente, grazie ai miei risultati accademici, a Lisbona ho potuto scegliere in quale Università andare a studiare e l’Università Lusófona di Lisbona è ottima nelle discipline di progettazione: quello che qui in Italia facevo in una settimana di corso, lì si faceva in una giornata. È stata una grande palestra, un’esperienza molto formativa: sono partito con aspettative e idee che si sono poi concretizzate.
Com’è stato approcciare al mondo del lavoro all’estero?
Sono entrato nel mondo del lavoro come l’ultimo dei disegnatori dello studio: all’inizio è stato difficile, ho lavorato prima 4 mesi part time. Entrare in uno studio di architettura non italiano è stata però una bellissima esperienza e il contesto umano positivo che ho trovato lì è stato un valore aggiunto.
Quali sono stati i momenti per te più significativi del tuo percorso?
La mia velocissima carriera universitaria è dovuta non solo all’impegno personale, ma anche ad alcune vicende familiari che in quella fase hanno inevitabilmente indirizzato il mio percorso. In generale, credo molto nella passione, sia in senso romantico che in senso emozionale. È l’unica condizione veramente democratica che ci caratterizza. Ho avuto sempre un rapporto molto diretto, pieno e appunto passionale con il mio lavoro. Condizione che, fortunatamente, ha sempre accompagnato e caratterizzato la mia vita lavorativa. Se dovessi sintetizzare con un atteggiamento il mio approccio al lavoro, è quello di una persona innamorata di quello che fa. Tra i miei progetti, forse non saprei indicarne uno che ha rappresentato una vera e propria svolta, negli ultimi anni ne sono venuti fuori molti con grande velocità: proprio ora sto lavorando a due progetti ancora più avvincenti. Nel 2015 sono stato menzionato a Londra nell’ambito di un concorso internazionale per giovani architetti, ma il mondo della concorsistica è molto strano: puoi ottenere gratificazioni ma essere del tutto sganciato dalla realtà. Credo che pesino di più i progetti costruiti.
Parlaci del tuo studio, A25design. Qual è l’idea che ti ha spinto a intraprendere questa avventura perugina?
Sono architetto dal 2007 e ho aperto lo studio qualche anno dopo, a partire da un’esigenza concreta: iniziavo ad avere sempre più lavori e collaboratori. Al momento la persona con cui lavoro a più stretto contatto è Alex Bellucci, un collega più giovane che sta crescendo molto e che ho al mio fianco da tanti anni, che sta investendo su questo progetto e nella causa con grande impegno.
Come sta cambiando il mondo dell’architettura?
C’è un grande distacco tra nostra realtà umbra e quella non umbra. Soprattutto nell’architettura, paghiamo molto lo scotto del confinamento – e non intendo il distanziamento dovuto al Covid. Abbiamo un’architettura non ricca, ma che ci dà grandi opportunità. Mi dispiace però vedere in tanti colleghi che lavorano sul territorio un atteggiamento troppo autoreferenziale e poca passione. Noi siamo una categoria che costruisce, non che parla. Ho un rapporto bellissimo con i colleghi Fabrizio Milesi e Stefano Menichetti, nato dalla passione vera: siamo tre competitors legati da un’amicizia costruita all’ombra della passione per il nostro lavoro e distante da possibili invidie, un rapporto intellettuale schietto e onesto che ho faticato ad avere con altre persone. Se posso fare una critica alla categoria è la mancanza di volontà di aprirsi al confronto, al dialogo in e out dall’architettura. Nel panorama dell’architettura non umbra, invece, finalmente stiamo parlando una lingua che non è più legata alla brutale voglia di essere pionieri senza guardare i risultati. La sperimentazione è fondamentale, ma con il dovuto rispetto della realtà che abbiamo davanti e se è in grado di proiettarmi verso una crescita e un miglioramento. Stiamo recuperando un rapporto con la ricerca molto più efficace. Come architetti italiani, dovremmo tornare a vedere quello che eravamo, per tornare ad aver cura del progetto puntando tutto sulla coscienza del suo valore come unica risposta alla perdita di contenuti.
Quali consigli daresti ai ragazzi – quelli ancora più giovani di te per intenderci – che vogliono intraprendere una carriera in questo settore?
Se volessi essere populista, direi non intraprendete questo percorso, perché è molto faticoso. Da passionale, invece direi: per prima cosa, fatelo solo per amore; poi, accettate e capite che la gavetta e il lavoro vero mal retribuito sono l’unica strada iniziale per capire cosa si fa. Anche io quotidianamente ingoio sempre bocconi amari, ma rimanere con i piedi per terra è fondamentale. Il mio consiglio è anche di essere aperti al fato, avere tanto spirito di sacrificio e pensare che i risultati arrivano tardi, ma quando arrivano sono grandi. Per me i risultati sono arrivati presto solo perché ho iniziato a lavorare presto. Lavorare all’estero? Perché no, è un’esperienza. Chi ha goduto del favore dell’architettura nascendo in Italia ha una sensibilità innata che difficilmente i nostri colleghi stranieri hanno; l’essere assuefatti e abituati al bello che ci circonda è un’inclinazione difficile da sradicare, tornare a essere parte di un flusso credo sia qualcosa di obbligatorio per noi.
Veniamo alla domanda più classica – che per un architetto ha duplice valenza. Progetti per il futuro?
I progetti architettonici a cui sto lavorando al momento – e che mi legano alla mia città – sono top secret. Vorrei anche una progressiva crescita per lo studio senza la perdita di attenzione nei confronti della qualità architettonica. Ma il mio più grande progetto è sul piano personale: vorrei raggiungere il traguardo di una vita serena, forse il progetto più avvincente di tutti.
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