La Madonnina vede le stelle In evidenza
Sono in un treno. Freccia Rossa. In un vagone di prima classe dove non viaggio quasi mai. Solo quando Lorenzo, il mio agente di viaggi, riesce a cogliere al volo un'offerta speciale per fornirmi un po' di snobistica tranquillità al prezzo della seconda classe. Lo steward passa.
Prendo un succo di frutta alla pesca. Niente snack. È sera. Arriverò a Milano alle 20:30 quando tutto il mondo si rifugia nel tepore delle mura domestiche.
Il mio viaggio, quello fisico, in treno, passerà velocemente. Quello interno, quello dell'anima, nascosto, durerà di più e sarà meno lineare. Con qualche scossone, come quello di un vecchio treno regionale.
Nel tratto tra Firenze e Bologna una ragazza si siede accanto a me. Mi tiene compagnia raccontandomi la storia della sua vita adulta. L'ascolto volentieri. Sono anni che non parlo con nessuno in treno. Ognuno viaggia oramai assorto nei propri pensieri distratti da un tablet o da uno smartphone. I viaggiatori dei treni non hanno più occhi né orecchie, né sorrisi. Per nessuno. Il sorriso di Ornella è timido. Gentile e sereno allo stesso tempo. Alla stazione di Bologna lei scende. Ci salutiamo sorridendo. Vado a mangiare nel vagone ristorante. Ordino un piatto semplice, spartano e il cameriere mi prende alla lettera. Mi serve giustamente un'insalata greca, triste come l'anima di chi viaggia solo.
Arrivo a Milano. La stazione è quasi vuota. Le poche persone che incrocio con i miei occhi curiosi sembrano anime perse. Anime reiette, escluse dal mondo dei colori più vivi. Anime che vivono in penombra ai margini di una realtà apparentemente normale. Anime che aspettano il buio per prendere il posto di chi di vive di giorno sotto la luce dei riflettori, ben vestito, ordinato, lindo pieno di cose da usare e da fare. Pieno di tutto eppure mai soddisfatto. Pieno di vuoto.
Percorro gli ampi spazi della stazione, le scale mobili, i corridoi illuminati da freddi neon. Mi colpiscono le facce di chi aspetta che il tempo passi, che arrivi il giorno successivo, per poi aspettare di nuovo che il tempo passi. Un barbone in un angolo prepara il suo giaciglio vicino a un negozio chiuso. È trasparente. Così trasparente che la sua esistenza non si riflette nemmeno sulla vetrina. Abbiamo la stessa barba, nera e lunga. Ma il mondo le recepisce come irsute maschere di personaggi diversi di un Carnevale infinito che si replica ogni giorno.
Lui è il barbone e io l'hipster. Eppure siamo due esseri umani, due maschere troppo banali che nessuno vuole indossare.
Due extracomunitari, con i segni della droga tatuati sui loro visi, hanno un espressione assente mentre bevono due degli ultimi caffè preparati dal bar che entro poco chiuderà.
Donne straniere di mezza età, esiliate dalle loro famiglie, parlano in cerchio nella loro lingua. Unico tassello del loro mondo lontano, souvenir astratto e profumato dell'essenza di casa.
In fondo alle scale della grande stazione un barbone è seduto su una sedia a rotelle, sgangherata e lurida. È anziano e solo, schivato dagli sguardi degli ultimi viaggiatori della sera. È sepolto sotto una grande coperta dalla quale spunta una sola gamba. Dai manici della sedia penzolano borse di plastica e una protesi ancora più malmessa della sedia.
Scappo da quello scenario che inconsciamente temo molto di più di quanto io stesso mi renda conto. Salgo in taxi. Lascio la stazione alle spalle delle mie paure. Le luci dei lampioni e i fari delle auto sembrano stelle artificiali. Quelle vere, nel cielo, sono nascoste dai palazzi.
Sono finalmente in camera. Una bella camera ma sono solo. Non posso condividere nulla con nessuno. Né un sorriso, né una lacrima. Apro la tenda della finestra. Ho davanti una piazzetta imprigionata dalle mura di palazzi ricoperti da un velo di smog sbavato. Guardo allora verso il cielo. In cerca di stelle. Non ci sono. Ma scorgo la Madonnina. Tutta d'oro e piccinina.
La guardo e la invidio. Lei, da lassù, riesce a vedere le stelle. Quelle vere.