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Sanremo e Il Volo nel passato In evidenza

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Sanremo e Il Volo nel passato
Dal blog di Matteo Grandi il punto sulla chiusura del Festival

Ha vinto Il Volo, nonostante il web, nonostante Malika e Nek, nonostante il buongusto. C’è qualcosa di sinistro e inquietante nella vittoria di questi tre giovani vecchi, sul cui successo sanremese si speculava da giorni, coccolati da mamma Rai più di un abbonato in prima fila. Ma c’è qualcosa di ancor più inquietante nelle ovazioni che sono state sistematicamente riservate alle loro esibizioni dalla platea imparruccata dell’Ariston, in un climax grottesco da film dell’assurdo, per cui mentre lo spettatore a casa assisteva a performance da tv bulgara, o al limite, da talent buono per Agon Channel, il pubblico in sala si spellava le mani e tributava standing ovation ai tre piccoli Borat replicando le atmosfere che dovettero accompagnare la prima del Nabucco alla Scala di Milano nel 1842. Un clima risorgimentale, che allora era giustificato dalla storia, dal contesto e da Verdi ma che a Sanremo suonava stonato come l’esibizione di Gianna Nannini. Così, mentre sui social network, specchio evidentemente poco rappresentativo del Paese, montava lo sconcerto per l’epilogo che si andava inesorabilmente materializzando, qualcuno provava anche a spendere fragili parole in difesa dei piccoli emuli di Aldo, Giovanni e Giacomo in versione tre tenori (vederli come i nuovi Domigo, Carreras e Pavarotti è un esercizio di lesa maestà al quale non riesco ad accodarmi): “sono professionisti internazionali che portano la musica italiana nel mondo”, “ha vinto il bel canto della tradizione italiana”, “loro girano il mondo con Barbra Streisand”. Tombola! Perché il punto è proprio questo: quello del loro successo oltreoceano, ottenuto portando in scena lo stereotipo della tradizione canora italiana, ovvero l’intero campionario che lo spettatore americano medio si aspetta da una boy band che gioca a scimmiottare Caruso, in un blend di cliché e luoghi comuni in cui mancano soltanto la pizza e il mandolino. Ma lo spirito del pubblico che li idolatra è lo stesso del turista americano seduto a piazza Navona che implora il cameriere di non cacciare lo stornellatore di turno, perché è quello che lui si è sempre immaginato quando fantasticava del suo viaggio a Roma: la pizza di gomma, il calice di vino rosso scadente e il cantante di strada vestito da Pulcinella che infila un medley di O Sole Mio, Volare e Laura Pausini. Perché purtroppo, lui, l’americano, di fronte all’arte italiana non ha la percezione del trash. Non vede ne Il Volo quel che dovremmo riuscire a vedere noi: artefazione, manierismo, sovrastrutture artificiose. Un’orgia di fintume che pone i tre bambocci sepolti dal cerone sullo stesso piano de Gli Sgommati. Così Sanremo, laddove neppure Bocelli ha mai vinto da “big”, diventa il palcoscenico della farsa e della falsa celebrazione della tradizione musicale italiana. Un teatrino che ci riporta indietro di decenni, al melodramma urlato, ignorando che la musica oggi va in un’altra direzione, seguendo canoni diametralmente opposti (non a caso il loro mentore è Tony Renis, classe 1938, uno che i più grandi successi li ha firmati fra il ’58 e il ’69). Il tutto in quel clima da restaurazione propinatoci da Carlo Conti, in cui tornano l’operetta, Al Bano & Romina, Firenze Capitale del Regno e le facce da Democrazia Cristiana. “Ma in fondo hanno vinto dei giovani” si dirà, come è già capitato in un passato prossimo con Marco Carta, Valerio Scanu, Emma o Marco Mengoni. Vero. Ma c’è una sottile differenza: quelli erano giovani che piacevano alle figlie, questi sono giovani che piacciono alle nonne. Et voilà, il delitto perfetto è servito.

www.matteograndi.com