Londra è donna
One hears the restless cries!
From ev'ry corner of the land:
"Womankind, arise!"
Political equality and equal rights with men!
Take heart! For Missus Pankhurst has been clapped in irons again!
Eppure, Londra è anche donna. Tralasciamo il cliché della regina, non sia mai. Sorvoliamo la parentesi Thatcher, che è meglio. No, il volto femminile di questa città ha per me tutt’altro aspetto. E tutt’altri nomi.
Sultan. Belén. Valentina. Bianca.
Dalla Turchia all’Italia passando per la Spagna, questi sono i nomi di quattro ragazze che ho avuto la fortuna di incontrare in questa città. Senza di loro questo soggiorno all’estero sarebbe stato totalmente diverso. Diverso in senso negativo, intendo. Ne sono certa: ecco perché intendo dedicargli (sì, lo so. Gli alfieri della grammatica italiana sono pregati di sorvolare) questo intervento. Mi dispiace che alcune di loro dovranno googlare la traduzione: spero vivamente che Google Translate non approfitti dell’occasione per superarsi (per ulteriori informazioni vedi http://www.wired.it/internet/web/2014/09/29/50-disastri-di-google-translate/), pena crisi diplomatica internazionale. Vedrò di fare attenzione a come scrivo ciò che scrivo.
Ho conosciuto Sultan e Belén a Notting Hill, poco dopo essere arrivata.
Sultan, da Istanbul, è volata a Londra esattamente un anno fa. È la sua ottava volta, qui. Otto volte a Londra che vanno ad aggiungersi ad innumerevoli altri viaggi ai quattro angoli della terra. Invidio molto questa sua voglia di girare il mondo. Niente di più semplice – direbbe qualcuno: con i soldi alla mano si compra ciò che si vuole, anche la voglia di viaggiare. Nulla di meritevole in tutto ciò. Vi dirò, in realtà, che non è affatto così. Che i soldi facciano girare il mondo è un dato di fatto. Che, per traslato, essi facciano girare anche noi che in questo mondo ci viviamo, è una conseguenza logica. Chi oserebbe negare che viaggiare è un lusso per pochi? Nessuno oserebbe tanto. Eppure, viaggiare per aprirsi incondizionatamente ad altre culture è una virtù che altrettanti pochi possiedono, e non ha niente a che vedere con le risorse economiche di cui si dispone. Io questa virtù non ce l’ho; Sultan sì. Sultan ha sete di rapporti umani, pur conoscendo profondamente il valore della solitudine. Tralascerò il fatto che ha sconfitto il cancro; non menzionerò la sua decisione di rinunciare al proprio lavoro spinta dalla necessità di reinventarsi al di fuori dei confini con cui aveva inizialmente definito, poi cristallizzato la sua personalità; eviterò di dire che ha deciso di imparare una nuova lingua, l’inglese, a ** anni, superando in bravura chi come me l’inglese lo studia dalla prima elementare. Dirò solo che Sultan è una persona eccezionale, con un’amazzone tatuata sulla schiena dall’aspetto alquanto discutibile, non c’è che dire, ma che la dice lunga su chi realmente lei sia.
Belén, originaria di León, si trovava a Londra per perfezionare il suo inglese in attesa che gli annunci di lavoro cui aveva risposto in Spagna dessero qualche frutto. Alle sue spalle: una laurea, un corso di specializzazione, un lavoro felicemente ottenuto, prima, felicemente lasciato, poi. Di fronte a sé: nulla. Eppure, nonostante ciò, è proprio da lei che ho ricevuto i consigli migliori su come affrontare il mio malaugurato tirocinio, su come cercare un appartamento, su come muovermi agilmente in questa città così caotica. Ho avuto troppo poco tempo per godere della sua saggezza, in realtà: a un mese di distanza dal suo arrivo le opportunità di lavoro sono sopraggiunte una dopo l’altra. Le application presentate a Madrid avevano fatto centro: per Belén, neanche un mese dopo essere atterrata, era nuovamente tempo di partire. Per quanto le avesse aspettate quelle risposte, la loro tempestività giungeva inaspettata. Non che non fosse contenta. Tutt’altro. Vedere che le proprie competenze pagano anche in un paese come la Spagna – nazione soggetta ad un crisi talmente incisiva da rendere semplice, per Belén, comprendere a fondo la precarietà che affligge la vita di una studentessa italiana – è un belvedere, non c’è che dire. No, il fatto è un altro: il futuro l’ha colta alla sprovvista. Ora Belén si trova a Madrid: ha lasciato León, la sua città, per inseguire un’opportunità del tutto inaspettata. Rien ne va plus, les jeux sont faits. Che altro dire? Ci vuole coraggio, di nuovo. E non sarà questa l’ultima volta che lo dirò, in questo mio intervento. Brace yourself.
Valentina, di Udine, è seduta di fronte a me esattamente ora, mentre sto scrivendo queste poche (troppe?) righe. Se non ci fossimo incontrate, tre mesi fa, avrei fatto le valigie e me ne sarei tornata a casa. È la mia compagna di sventure: come me, infatti, è incappata nel tirocinio presso *************. La differenza è che io ci sono stata mandata dall’università. Una sorta di suicidio assistito, in pratica. A Valentina, invece, è stato suggerito da un’amica. Conoscente, è forse il caso di dire. O meglio nemica, vista e considerata la natura del tirocinio. La prima volta che ci siamo incontrate è stata in occasione del nostro primo colloquio con il direttore del suddetto giornale. Luogo prescelto per un appuntamento così importante: lo Starbucks di Victoria Station. Avremmo dovuto iniziare a dubitare della validità del tirocinio sin da questo momento, direte voi. Ma eravamo giovani (tre mesi fanno esperienza, non c’è che dire) ed inesperte. Da quel pomeriggio di febbraio, un po’ per lavoro ma soprattutto per piacere, abbiamo continuato a tenerci in contatto. (S)parlare di un direttore ha i suoi lati positivi. In fin dei conti, la tragica piega assunta dagli eventi ci ha fatto divertire: nessuna sede presso cui svolgere il tirocinio, nessuna redazione con cui poter interagire, nessun criterio ragionevole di selezione e correzione degli articoli. Di certo non sarebbe stato divertente neanche un po’ se non ci fosse stata Valentina. Ora, con sua grande fortuna, il suo tirocinio è finito. E mentre per me non è ancora arrivato il momento di archiviare questa tragica esperienza, lei si sta preparando ad entrare nel mondo del lavoro vero e proprio. Perché sì, forse è il caso di dirlo: Valentina, ventisettenne, si laurea in lingue ad Udine, consegue la laurea magistrale in letteratura inglese a Heidelberg, lavora come au pair nel Regno Unito. Conosce perfettamente l’inglese, il tedesco, l’italiano (informazione non così scontata). Sa come vanno le cose nel mondo; soprattutto, sa come vanno le cose a Londra: con lei ho imparato a preferire il bus alla metro, Lidl a Sainsbury’s, la zona 2 alla zona 1, la zona 3 alla zona 2. Tutti motivi che spiegano – ma non bastano, in realtà – perché sia stata assunta in un’importante casa editrice londinese. Inizierà a lavorare la prossima settimana. Sarà brillante. E nonostante abbia appena trovato una stanza in una casa abitata da soli russi, sono certa che il suo soggiorno londinese sarà un successo sia personale sia professionale.
Dulcis in fundo, Bianca. Bianca è la mia coinquilina. Benché in casa ci siano altre due persone eccezionali, lei è la migliore che mi potesse capitare. Siamo anche un po’ parenti, a dirla tutta. Mia nonna e suo papà sono cugini. Non saprei dire se scorre lo stesso sangue nelle nostre vene: chi ne capisce niente di parentele. So solo che Bianca è una forza della natura, e che se condividessi con lei anche solo un pizzico della sua audacia, allora potrei dirmi a posto per il resto dei miei giorni. Senese (benché odi essere chiamata così), ventiduenne, disoccupata – Bianca sbarca a Londra in cerca di lavoro. Campo d’interesse: moda. È probabile che nella mente di ogni lettore, a questo punto, si stia creando un’immagine artefatta e fuorviante di Bianca. Perché, diciamocelo, è difficile figurarsi un’appassionata di moda senza rischiare di fare confusione. Ci penso io a chiarire l’eventuale qui pro quo. Appassionata di moda nelle sue manifestazioni più stravaganti e, strano a dirsi, più sobrie, Bianca è la ragazza acqua e sapone di cui tutti, almeno una volta, avrete sentito parlare. Bella di una bellezza indefinibile, ciò che mi sorprende di più di lei è la sua forza di volontà, la sua bontà, la sua schietta e mai offensiva sincerità. Se non ci fosse lei in casa me ne starei tutto il giorno a letto a poltrire. E invece Bianca c’è. C’è e canta a squarciagola; e ascolta la musica ad alto volume; e mi convince ad attraversare Londra da un capo all’altro con la sola forza delle gambe. Bianca c’è, e con lei Londra può finalmente far conto su una lavoratrice instancabile: da gennaio ad oggi, ogni giorno della settimana dal lunedì al venerdì, Bianca sta realizzando tirocini su tirocini, quasi instancabilmente. E poiché una retribuzione nel campo della moda è cosa impensabile (quantomeno agli esordi; ma quanto durano questi esordi?), la sola forza che la muove è la forte passione per il disegno e la moda insieme al desiderio di fare di quest’ultima un lavoro appagante nonché retribuito. Una forza che si manifesta anche nella sua cucina: tutto ciò che può essere ingerito, a sua detta, deve essere condito con peperoncino in abbondanza. Per non parlare dell’abuso che fa del pepe. Roba da denuncia, se non fosse per il bene che ho imparato a volerle. Andarmene da Londra, a luglio, sarà difficile perché dovrò lasciarla qui. Se il suo ragazzo acconsentisse, me la porterei in valigia fino a casa. (S)fortunatamente, questa città ha bisogno delle sue potenzialità. Chi sono io per negare a Londra questo ennesimo esemplare di cervello in fuga?
Non so come concludere, probabilmente perché ho scritto troppo. Ma direi che può andar bene anche così, ché tanto avrete smesso di leggere già a metà articolo. O forse anche prima.