Europa e Islam: convivenza (im)possibile?
Mentre l’Occidente più che unirsi si divide in nome delle ideologie (mai così fuori luogo), mentre i fascisti neri scatenano una vera e propria campagna xenofoba contro gli immigrati di ogni colore, sesso, razza e religione e i fascisti rossi tentano, come di consueto, di collocare la genesi dell’odio nell’imperialismo americano o in quel che resta del colonialismo europeo, della caccia al petrolio e degli affari sporchi, per le persone di buon senso si impongono alcune riflessioni. Da fare senza pregiudizi.
Perché il punto non è tanto di chi sia la colpa o quanto in guerra siamo. Il punto intorno al quale tutto dovrebbe ruotare sta in una domanda grossa come l’ego di Giuliano Ferrara: oggi si può trovare una forma (e una formula) di convivenza con il mondo arabo-musulmano che mantenga e rispetti una valore acquisito come la laicità dello stato? Non credo di avere una risposta, ma credo sia giusto instaurare questo dibattito – e non soltanto in presenza di atti terroristici – senza lasciare che a prendere l’iniziativa su questi temi siano i Salvini di turno. E ancora: quanto i figli di una cultura che tende per sua stessa natura a fagocitare le altre e a non tollerare le diversità può davvero adattarsi al mondo occidentale senza passare sul ventre molle di libertà, uguaglianza e democrazia per schiacciarne inesorabilmente usi e costumi fino a una colonizzazione di carattere religioso e culturale, meno violenta di certi attentati ma non per questo meno minacciosa?
Se si scorre, in modo anche superficiale, la storia e la struttura degli stati islamici, solo Malesia e Indonesia si rivelano davvero emancipati dal peso della teocrazia, risultando per certi aspetti più secolari e più laici dell’Italia stessa, con donne in posti di potere che da noi neanche ci sogniamo. In Malesia vige una piena democrazia, in Indonesia, paese dalla storia complicata, è almeno in parte abbozzata. Mentre in Pakistan, prima delle tante guerre sponsorizzate dal mondo occidentale ai suoi confini, era stata eletta, democraticamente, una presidente donna, quando da noi il 50% delle donne stava ancora a casa a fare figli.
È pur vero che questi sono quasi gli unici esempi. Il Maghreb e i suoi regimi problematici non erano né fondamentalisti, né religiosi, ma certo non si potevano definire laici nel senso pieno del termine. Li abbiamo comunque abbondantemente tollerati e fomentati, fin quando si è deciso che quei regimi (da Mubarak a Gheddafi, da Assad a Saddam) non ci andavano più bene, mentre ci sono sempre andati benissimo i sauditi fondamentalismi, annodati a filo doppio allo zio Sam.
In ogni caso, anche gli stati meno fondamentalisti, sotto il primo velo, palesavano una realtà più articolata e meno incoraggiante. L’Egitto di Mubarak, per esempio, era sì più laico dell’Arabia Saudita, ma era comunque un paese in cui una donna non poteva sposare un non-musulmano e in cui i copti erano ghettizzati e trattati in modo infame. Insomma, non uno stato estremista come quello saudita, ma da qui a definirlo laico, così come lo intendiamo noi, ce ne passa. E questo ci porta al punto centrale: esiste un problema di separazione tra stato e religione che l’Islam (quantomeno nell’interpretazione oggi maggioritaria nel mondo arabo) non ha compiuto, mentre questa separazione in occidente è più o meno avvenuta, anche se con dei limiti qua e làli insulti, neanche nelle estremisticamente cattoliche Irlanda e Polonia. Il che non significa che esista un mondo buono e uno cattivo. Un mondo buono, probabilmente, non esiste affatto. Occorre però prendere atto delle diversità di mondi diversi e chiedersi se esista un punto di incontro in cui si possano conciliare.
Il problema, se posto in questi termini, va oltre il terrorismo e i meccanismi che lo generano. Il problema su scala generale era stato già posto, con toni non proprio accomodanti, da Oriana Fallaci, una donna che il mondo arabo-musulmano lo conosceva benissimo. E si sposta sul piano dello scontro fra culture. Gli islamici, anche quelli moderati e integrati, sono davvero pronti a vivere in un mondo che affonda le proprie radici nei valori laici? Sono disposti a fare un passo indietro rispetto alle proprie usanze lasciando che a dominare siano valori non Corano-centrici? Sono disposti ad accettare la libertà come una piattaforma in cui anche la satira su Maometto o su Allah possa essere metabolizzata senza che questo scateni pericolose reazioni? Sono pronti a concederci a casa loro la stessa libertà di culto e di edificazione di luoghi di culto che l’Occidente concede a loro? Perché se non vogliamo che una cultura forte e per natura impositiva come quella islamica prenda il sopravvento in Europa questi sono i capisaldi sui quali occorre fare chiarezza. E sui quali non si può trattare.
Attenzione: questo non significa chiamarsi fuori, in quanto europei e occidentali, dal gioco delle responsabilità che nei decenni ha creato i presupposti e per il terrorismo, che oggi vede nella difesa della propria fede il più comodo degli alibi. L’Occidente, gli Stati Uniti, la Nato hanno creato mostri salvo poi scaricarli, quando gli si sono rivoltati contro: prima alleati dell’Afghanistan e poi nemici, prima alleati della Siria e poi nemici, anzi ibridamente cerchiobottisti, prima nemici degli iraqeni e poi un po’ alleati e un po’ no, prima filo-algerini e poi anti-algerini, prima filo-libici e poi vediamo: giochi di potere che alimentano tensioni e armano le mani di chi domani (ormai la storia si ripete con ciclica e tetra ritualità) si scaglierà contro di noi.
Insomma, chiedere al mondo arabo di dissociarsi da quanto accaduto a Parigi non solo è ipocrita ma per certi aspetti pleonastico. Perché il soggetto più difficile con cui scendere a compromessi sono proprio i musulmani moderati. Quelli che pubblicamente prendono le distanze ma intimamente pensano che la redazione di Charle Hedbo in fondo se la sia cercata. Quelli che non si farebbero mai e poi mai saltare in aria, ma poi (vedi il caso del produttore esecutivo di Al Jazeera, Salah-Aldeen Khadr) chiedono ai propri giornalisti di puntellare i propri servizi con domande retoriche che hanno dell’incredibile, come “chiedersi se c’è stato davvero un attacco al popolo e alla cultura francese o se è stato preso di mira un bersaglio limitato reo di aver offeso un miliardo e mezzo di persone”, chiedere di fare dei distinguo fra “difendere la libertà d’espressione davanti a un regime” e “insistere sul diritto di offendere” (licenza quest’ultima attribuita a Charlie Hedbo) come “presa di pozione infantile”. Richieste (o gentili imposizioni) che, per la cronaca, hanno portato a un durissimo scontro all’interno della redazione fra cronisti arabi e americani.
In un simile contesto e in un mondo malridotto, le cui cellule malate sono state incubate sia dalle politiche imperialistiche dell’uomo bianco che dall’integralismo dell’Islam più radicale, il male si annida e può esplodere ovunque. Eppure c’è, anche in questo caso, una sottile differenza: in Europa frustare e imprigionare un blogger “reo” di aver creato un forum in cui esprimersi liberamente sarebbe un atto al di fuori della morale e della legge, mentre in Arabia Saudita la condanna a 10 anni di carcere e 1000 frustate al blogger Raif Badawi (reo di aver esercitato la propria libertà di espressione) è un atto che trova piena giustificazione nella legge e e nella morale del regno saudita: il tutto senza che nessun musulmano senta il dovere di dissociarsi o prendere le distanze, da una simile condanna. L’Islam in se non è il male. Ma ha regole troppo diverse dalle nostre. Che lo fanno apparire ostile, violento e (basti pensare alla sola condizione della donna nella solita Arabia Saudita) retrogrado. Quando si parla di integrazione bisogna tenere presente anche questo. Bisogna pretendere che alla capacità degli stati europei di garantire un inserimento dei non europei, corrisponda la capacità di accettare le nostre leggi da parte di chi si inserisce. Perché non è vero che la libertà vince sempre. La libertà vince solo se è un valore condiviso in ogni sua forma. È l’Islam moderato pronto ad accettare questo principio?
Oggi che l’Europa è oggetto di una migrazione dalle proporzioni storiche che nel bene e nel male è destinata ad avere conseguenze, l’interrogativo va posto con la massima fermezza. Perché il dibattito sulle politiche dell’accoglienza non può prescindere da un’ultima fondamentale domanda: il mondo di valori più o meno acquisti in cui viviamo (dalla laicità dello stato alla democrazia) è forte abbastanza da reggere all’urto di culture millenarie in cui questi valori non sono contemplati?