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L'editoriale n.96

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L'editoriale n.96

“Ammazzato dagli americani” sta diventando una delle prime cause di morte al mondo

Al netto dell'auto-referenzialità compiaciuta e saccente di tante penne nostrane e dello snobismo intellettualoide e bislacco di un piccolo esercito di giornalisti televisivi, cartacei e digitali che si atteggiano a star, che cosa resta dopo la nona, intensa, edizione del Festival Internazionale del Giornalismo? Dove va la professione, ammesso che abbia ancora senso di parlare di professione, in un ambiente in cui l'infotainment della D'Urso è considerato giornalismo alla stregua di Report, l'inviata alle sfilate che commenta la pelliccia in puzzola di Prada è iscritta allo stesso albo dell'inviato di guerra e chi si sporca le mani con le inchieste gode di meno credito di chi pontifica opinioni (spesso discutibili) piazzato dietro un pc e protetto dal mantello di un'auto-proclamata autorevolezza? Perché in fondo la sensazione è che, oggi più che mai, i giornalisti e i giornalismi si dividano, al di là di un sottobosco dalle mille sfaccettature, in due categorie: chi porta le notizie (pochissimi) e chi porta acqua al mulino del proprio ego, parlandosi addosso, sputando sentenze e rivolgendosi più che alla gente a una stretta cerchia di meta-colleghi i quali, convinti di vivere nell'empireo dell'intellighenzia, continuano a farsi leader di opinioni solo perché l'ignavia dei contemporanei glielo consente. Senza dimenticare che, in questo corto circuito logico e professionale, le notizie vere arrivano sempre più spesso da chi giornalista neppure lo è: dalle Iene agli operatori video che lavorano in zona di guerra. Per arrivare al paradosso maximo: i due eventi più seguiti del Festival di Perugia hanno avuto per protagonisti due non-giornalisti, ovvero Edward Snowden e Zerocalcare. Insomma, al di là delle etichette, chi ha qualcosa da dire e contenuti da offrire crea più attenzione di chi (s)parla senza avere nulla da dire. Il tutto mentre il premio Pulitzer finisce a una testata locale americana, The Post-Courier di Charleston, per un'inchiesta sulla violenza domestica alla faccia dell'auto-referenzialità di tanti mammasantissima del giornalismo globale, evidentemente troppo presi dal gossip politico; come se le dietrologie sullo staff di Renzi o gli intrighi alla Casa Bianca fossero la vera essenza del giornalismo. Quella è più spesso fiction signori. E da qualche tempo ha persino un nome: House of Cards. Ma, forse, proprio il Festival di Perugia e il Pulitzer al giornale di Charleston ci dicono che magari le vere risorse sono in provincia e non nelle articolesse virtuali di tanti santoni del giornalismo ciarlato. In attesa che un Pulitzer vada al Corriere dell'Umbria per un'inchiesta sui rapporti fra sagre e fiscalità, per esempio.

L'editoriale n.96
   
Matteo Grandi

A due anni leggeva Proust, parlava perfettamente l'inglese, capiva il francese, citava il latino e sapeva calcolare a mente la radice quadrata di numeri a quattro cifre. Andava al cinema, seppur accompagnato dai genitori, suonava il pianoforte, viaggiava in aereo, scriveva poesie e aveva una fitta corrispondenza epistolare con l'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. A sei anni ha battuto la testa cadendo dagli sci. Del bambino prodigio che fu restano l'amore per il cinema, per la scrittura e per le feste natalizie. I segni del tracollo sono invece palesati da un'inutile laurea in legge, da un handicap sociale che lo porta a chiudersi in casa e annullare appuntamenti di qualsiasi genere ogni volta che gioca il Milan e da una serie di contraddizioni croniche la più evidente delle quali è quella di definirsi "di sinistra" sui temi sociali e "di destra" su quelli economici e finanziari. A trent'anni ha battuto di nuovo la testa e ha fondato Piacere. Gli piacerebbe essere considerato un edonista; ma il fatto che sia stata la sofferenza (nel senso di botta in testa) a generare il Piacere (nel senso di magazine) fa di lui un banalissimo masochista.